venerdì 30 ottobre 2015

Pietre lisce



Esistono pietre grosse che modificano il corso di un fiume. Massi grandi come case, su cui puoi sedere con un bastone in mano e vedere come là sotto l’acqua è costretta a fare un giro, come se tu fossi su una piccola isola.
Esistono pietre che si ricoprono di limo e di alghe, e che via via, pian piano diventano tutte verdi e lisce, pericolose per chi guada il fiume, perché si rischia di scivolare. Su di esse il fiume passa rapido, non si sa se hanno deciso di assecondarne il corso o se si sono arrese per troppa debolezza.
Da bambini sui fiumi giocavamo a spostare le piccole pietre, costruire piccole dighe, chiudere minuscoli laghetti, creare cascate.
Non sempre il corso va assecondato. In taluni casi essere resistenza, diga, filtro può essere utile a trattenere masse che potrebbero diventare tragedia.
In altri casi se ti poni come ostacolo a un flusso, rischi di soccombere alla forza del flusso inarrestabile.
In altri è doveroso.
Facile la politica che asseconda il flusso, che più che ascoltare le istanze dell’etica e della storia, risponde agli istinti più bassi e immediati: di violenza e vendetta, e non di giustizia, di vita facile più che di responsabilità.
Facile il giornalismo che va incontro al senso comune, alla sete morbosa, alla curiosità, al linciaggio.
Il senso critico è ruvido, ma è filtro, crivello, setaccio che aiuta a discernere con libertà e ragionevolezza.
Le piccole onde del fiume battono su di me. Una leggera schiuma tra i capelli. La frescura dell’acqua nella gola.
Non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume. Nemmeno una volta. Tutto scorre.
Ma il rapporto tra le pietre e il fiume è un concerto eterno, un’opera di filtraggio secolare.
Trasparenze, specchi, improvvise aperture e balze. Un fluire che è discontinuo come la vita, filamenti di una rete che la disegna e la tesse. No, non sarò mai pietra liscia.







martedì 27 ottobre 2015

Tutto il potere alle nonne



   La saggezza va avanti, non va indietro. Le persone più lungimiranti sono quelle che hanno salito la china per cammini anche impervi. Raggiunto quasi il punto più alto, si guardano intorno, il respiro ancora affannoso per il fiatone, definendo lo spazio con il loro bastone. Loro sanno perfettamente cosa hanno attraversato per arrivare lassù. Ora lo sguardo si estende su una immensa distesa di mondo.
   Per questo ritengo che  tutto il potere vada dato alle nonne. Non ai genitori troppo impegnati dal lavoro per potersi dedicare al futuro dei loro figli, ma proprio a loro, loro che sono state mamme due volte, che tanta cura hanno avuto per la vita da potersi permettere una doppia ironia adesso, nei confronti dei loro figli e dei figli dei loro figli. E per ironia non si intende una presa in giro, ma uno sguardo che aiuta al distacco che è utile al pensiero in mezzo alla confusione e che sa dirti che quella cosa che ti sta preoccupando è solo una piccolissima briciola nell’armonia dell’universo.
   Le nonne anticipano papi e sovrani nelle loro riflessioni e aperture. Mi vien da sorridere quando leggo – ora – 2015- aperture per altro mal scritte su temi di disabilità ed emarginazione che mia nonna a partire dalla sua esperienza aveva richiesto molto tempo prima quando si scontrava – sì, sì scontrava – con politici e prelati nel richiedere l’abbattimento di barriere architettoniche e le veniva risposto che le vere barriere sono quelle mentali e psicologiche. E lo sapeva bene! Eppure lo Stato nella sua legislazione al riguardo – ancora male applicata, malissimo – ha anticipato di gran lunga una Chiesa che ancora fino a poco tempo fa discuteva – e forse talvolta ancora discute – sui sacramenti ai disabili! – no, non si parla qui di divorziati. Insomma il siamo tutti fratelli e il prendete e mangiatene tutti hanno avuto tanti distinguo, tante eccezioni, che hanno provocato tante ferite nascoste.
   La consapevolezza delle nonne è sempre stata in anticipo nell’evidenziare la necessità di affrontare i temi del celibato, del matrimonio dei preti, nella convinzione  che una sana affettività è la premessa per dialogare di affettività con chiunque e per vivere rapporti umani equilibrati. E che la bocca parla dalla pienezza, non dal vuoto, del cuore.
   La consapevolezza delle nonne anticipa stati e chiese nel riconoscere l’amore vero.  A volte seguendo con fatica il cammino dei loro figli, ma a volte anche superandolo laddove questi restano spaventati dalle chiusure e dalle miopie del mondo, le nonne darebbero la vita ogni volta che un loro figlio o nipote si sente violato, discriminato nella sua dignità, nel suo diritto a una libera realizzazione di sé in ogni campo. Perché questa è la libertà che non può essere solo appannaggio di alcuni.
   Le nonne hanno ben capito che Dio va oltre i sacramenti, e che il diritto va oltre le leggi, e che la prima cosa sacra sono le persone con la loro libertà e la loro coscienza e le loro venture. Dove sono queste persone che oggi hanno trovato la loro strada al primo colpo, nell’amore, nel lavoro, in ogni campo, laddove regna una precarietà che è forse il segno dei tempi, il segno di una fragilità che attanaglia l’uomo proprio quando si sente più forte nelle sue conquiste, nei suoi traguardi nella sua potenza economica e politica raggiunta a prezzo della povertà e dello sfruttamento di tanti altri che oggi chiamiamo migranti, uomini ischeletriti dai predoni d’Occidente?
   Le nonne hanno sguardo ampio sulla politica. Le nonne smascherano. Le nonne ne hanno viste tante. Non reggono l’ipocrisia, mentre stirano una camicia e guardano la televisione sanno riconoscere l’impostura ricorrente. Sanno individuare la parola vera. Sanno indicare le mine dell’incoerenza e del trasformismo che scandalosamente non fanno più scandalo. 
   Le nonne non si fidano. E per questo bisogna stare attenti.
   Vorrei nonne cardinali, nonne presidenti della repubblica. Nonne sindaco, nonne assessori, nonne sacerdoti. Presbiteri erano coloro a cui veniva affidato il governo di una comunità e il servizio della celebrazione di ciò che è più sacro (nonna a Pasqua, nonna a Natale!) nelle prime comunità cristiane. Niente di scandaloso. E alle nonne, dico oggi, non ai nonni, perché si sa in fondo di chi è la tempra.
   Le nonne hanno impastato tanta pasta e girato tanto sugo che la gravitazione universale per loro è una bazzecola. Hanno abbassato e alzato fiamme, misurato tanta febbre, che le leggi della termodinamica fanno loro un baffo. Hanno messo tante lavatrici che la forza centrifuga e quella centripeta non si sprigionano senza il loro assenso. L’ebollizione dell’acqua necessità del loro placet. Hanno visto esplodere ire e attentati, crollare muri e riergersi barriere su cose che sembravano superate e assodate, negando conquiste dell’umanità che hanno richiesto oltre che sangue un cammino secolare. Le poesie scritte dalle nonne sono una invocazione perenne di bellezza e di pace.     Cosa teme una nonna se non che non si riconosca una via di realizzazione per i propri figli, per i propri nipoti?

Lasciate passare una nonna, ed aprirete il futuro del mondo. 



Tilcara, Quebrada de Huamhuaca, Argentina. 

venerdì 23 ottobre 2015

Le felicità




   Le felicità sono tante. Non a caso per dire auguri il mondo latino usa il termine Felicidades o Felicitats, e in alcune situazioni anche in Italia si dice felicitazioni
Qualcuno crede che la felicità non esista proprio perché pensa che di felicità ce ne sia una sola: la Felicità. Io penso invece che esistano tante felicità, diverse secondo i momenti della vita e che ciascuno possa avere la sua, o più di una, contemporaneamente o a seguire, di queste forme di felicità.

   Esiste la felicità come spensieratezza e gioco, nei bambini o nell’adolescenza, uno stato che si può attingere anche in momenti diversi della vita, se si è capaci di lasciarsi andare.

   Esiste la felicità come raggiungimento di mete e traguardi, molto legata alla stima ed all’autostima, tipica forse dell’adolescenza, o dello sportivo, ma che si sperimenta in ogni fase della vita che implica un passaggio: la laurea, il primo impiego, l’intreccio di un legame affettivo, la nascita di un figlio, un libro pubblicato, l’acquisto della prima casa.

   Esiste la felicità fisica, fatta di grande benessere del corpo, in cui i sensi ci mettono in comunicazione con la natura facendoci sentire tutt’uno con essa. Una forma di questa è la felicità amorosa, in cui spirito e corpo godono all’unisono insieme alla persona che si ama.

   Esiste la felicità del gustare la bontà e la bellezza, e soprattutto l’arte. La creatività artistica ne è certamente una delle forme più alte.

   Esiste la felicità del sentirci in sintonia con qualcuno o con qualcosa, con una persona, una forma vivente, un astro, un gruppo culturale o politico, una patria cui sentiamo di appartenere o la terra promessa dell’umanità realizzata o in via di realizzazione.

   Esiste la felicità nei sogni che può permetterci di vivere una vita per ogni sogno.

   Esiste la felicità come soddisfazione lavorativa, o affettiva. Queste sono proprie dell’età adulta, e non è detto che si diano insieme. A volte si è più soddisfatti di un aspetto, a volte dell’altro, e non è detto che entrambi siano sempre indispensabili.

   Esiste la felicità come memoria, come ricordo dei bei momenti trascorsi o dell’insegnamento tratto anche dal superamento di momenti dolorosi. Questa forse è la felicità dell’anziano, simile alla felicità del contadino che torna con il suo raccolto.

   Esiste la felicità della speranza, che è quella che si può avere anche nei momenti di grande dolore, forse anche in quello più estremo. Una felicità che ci proietta oltre, e che ha qualcosa a che vedere con una forma di fede e anche con l’immaginazione.

   Per questo io dico che di felicità non ce n’è una sola, ma una e tante per ogni uomo, e credo che non ci sia essere sulla terra che non ne abbia provato neppure una di queste, e nessuno che sia stato felice che non possa rivivere quello stato di grazia, anche solo chiudendo gli occhi e ripensando. 



Salisburgo. Sul fiume Salzach.





lunedì 19 ottobre 2015

E uguale emmeccì al quadrato




   Quanti individui si vedono indaffarati nel mondo per denaro e potere. Quante persone, nella fase più tarda della vita, e che forse prima sono state tanto indaffarate, ora vivono per il gusto di cose semplici, come un dolce, un biscotto preferito, un cibo particolare, e godono anche di una piccola pianta o di un raggio di sole che carezza la pelle. 

   Non so come si possa perdere di vista la relatività delle cose del mondo. E smarrire il tempo buono della terra, quel che resta delle stagioni, della natura, del mare. La sacralità di un albero, il gusto di un frutto. Tutte quelle cose che il denaro non dà, e che si rivelano più preziose dell'oro.

   Non so come sia possibile investire una vita per cose che prima o poi sfuggono dalle dita, non solo per attacchi avversi, ma anche solo per il tempo che ci porta via dalle cose del mondo. Cose che a volte ci sopravvivano, e che hanno poco senso senza le relazioni.

   E la vita va oltre, e tanta tenerezza prende quando qualcuno di cui si diceva fosse "qualcuno" ritorna finalmente persona, una tra tante, ma in fondo ancora una volta persona, quando la si comincia a chiamare con il nome che gli si dava da bambino.



venerdì 16 ottobre 2015

Un artista, una città: Exequiel Balut, Salta, Argentina. Seconda parte.

   


   Anche nella sua esperienza di modello per il fotografo-attore Christian Inglize di Buenos Aires, come d’altronde nei ritratti dell’amico Matias Guerra, Exequiel Balut esprime una libertà serena nella relazione del corpo con il mezzo naturale e con il mondo dell’immagine e dell’immaginario visuale. Mentre penso questo insieme a lui nella sera in cui lo intervisto a Salta, mi vengono in mente alcune pagine di Hillman sul riscatto della corporeità che andrebbero attraversate.  
   La gentilezza, la timidezza, l’umiltà, l’ascolto, lo star quasi in punta di piedi nel mezzo naturale, così come le mani delicate e sottili e oltremodo precise nell’opera grafica, esprimono qualcosa che ha un che di primigenio, di rispetto profondo. Il corpo, afferma Exequiel, aiuta a desmentir muchas cosas, è forse l’anti-parola per eccellenza, aggiungerei io. Forse proprio per questo il percorso del Nino Jesus di cui con vario rituale Balut continua a celebrare un percorso naturale, al di là delle apparenze pop che potrebbero apparire dissacranti (in realtà è il contrario); forse proprio per questo le ultime operazioni in cui immagini erotiche, già neutralizzate dalla pandemia cibernetica, vengono pixelate, frammentate e ingrandite fino a perdere ogni connotazione e contorno trasformandosi in pura luce e colore entro uno schermo che può essere ingrandito o diminuito. Potrebbe sembrare una operazione da romanzo di formazione, utile sicuramente a situarsi: ma è soprattutto un situare l'immagine, uno smentirla, uno smascherarla, una forma di ciò  che Maria Zambrano proprio dalle Americhe avrebbe chiamato un descenso a los infiernos, un salvare l’impuro, il che significa, in fin dei conti, scoprire neutralità e purezza anche in ciò che è definito non-essere (mentre la relegazione nel nulla, quella è violenza). L’amore per la pittura e la fotografia di Exequiel ha quindi una sua coerenza e si esprime dalle sue opere e installazioni su mezzi effimeri, alla esposizione Weekend, ove per la prima volta ha portato un’immagine pixelata. Un’operazione di grande precisione che ho visto compiere al pittore e che richiama il primo amore di Exequiel per l’architettura e per il cinema. Tale ricerca, comune con tutto un gruppo di artisti ed intellettuali di Salta, ha trovato un suo momento di estrema manifestazione nella recente esposizione del Mac, Divisadero, ove l’elemento ancestrale, ormai imprescindibile per Salta, della (discussa) esposizione dei corpi dei bambini andini ritrovati ibernati sulle montagne ha trovato un suo corrispettivo nell'opera di Mario Cordoba, con un effetto contemporaneamente concettuale e realistico. Su questo gruppo, quale luogo di relazione e di scambio, con cui interagiscono sia le personalità di Balut sia quella di Guerra, avrò il piacere di soffermarmi in una successiva disamina, con alcuni approfondimenti sulle generazioni precendenti degli artisti di Salta necessaria a comprendere il salto verso l'ancestrale e verso il futuro dato da questi giovani artisti del nord-est argentino.


Exequiel Balut, foto di Matias Guerra.



Balut, Dans ce monde



giovedì 15 ottobre 2015

La fotografia di Matias Guerra. Della materia dei sogni.


   La critica è un surplus che rischia di essere retorico laddove l'espressione artistica è talmente precisa nella sua offerta da non richiedere alcuna parola. Questa, semmai, può avere la funzione di presentare, far conoscere, aprire una prospettiva su un materiale, sulla quale il recettore può modellare le proprie considerazioni, e disporsi a ricevere gli stimoli alieni in un primo enfoque che poi può anche mutarsi, arricchirsi, integrarsi, finanche annullarsi, come la memoria del primo incontro con una persona che poi si smarrisce nella storia della relazione con essa.
   E di poche parole si professa Matias Guerra, esponente tra i più interessanti della ultima generazione degli artisti saltegni, un giovanissimo argentino che fin dalla primissima giovinezza ha trovato nel mezzo fotografico il modo più efficace di trasmettere quel che sente (è autore anche di video e di installazioni). La sua opera silenziosa, che costituisce il suo verbo laico e sagrado, si divide nella provvisoria rilettura che lui stesso ne offre in tre parti: la prima in cui attraverso l'obiettivo il fotografo mette a fuoco i propri sentimenti, accadimenti personali e interiori, anche ricorrendo all'autoritratto, con riferimento perlopiù a sentimenti tristi o di disgusto, rispetto ai quali la fotografia assume una valenza di superamento; la seconda, in cui il linguaggio artistico si arricchisce attraverso la referenza a correlazioni oggettive, situazioni in cui la natura e la materia convivono anche attraverso la presenza sinergica di elementi moderni e tradizionali, con particolare attenzione al tema del tempo e della perdita, e la fotografia acquisisce ulteriore valore di rispecchiamento e di elaborazione/integrazione; la terza fase, quella attuale, in cui il rinvenimento di una modella/amica d'infanzia aiuta a rendere reale l'aspetto onirico, a ritrovare le temp perdue quando esso è ancora molto vicino, specialmente attraverso ritratti di capelli in movimento in cui la chioma della modella diviene espressione di libertà, "libertà come movimento intorno all'aria", chiosando, forse senza saperlo, frammenti del presocratico Anassimene o degli antichi atomisti. In tal modo la memoria si apre al passato remoto dell'infanzia e al recupero di suoi momenti fondamentali, anche opposti ("tristi o felici") e la referenza femminile diviene prospettica attraverso le tre ipostasi che si  manifestano nel gioco rappresentativo: la giovane amica, la madre, l'anziana nonna. Un percorso di approfondimento del sé che, seppure volto nel suo primo principio al superamento di impasse interiori, diventa empactante per la straordinaria nitidezza, la precisione formale. Una fotografia che ha la materia del vento ma che già è linguaggio originale, unico, riconoscibile: è Matias Guerra. 

                                                                                                        Gabriele Blundo Canto







mercoledì 14 ottobre 2015

Minima poetica





Insegnare è andare d'accordo con la parte migliore del mondo.

Didaptique




   Comincio a pensare, dopo quindici anni di insegnamento, che i ragazzi ritenuti più difficili o mal sopportati sono quelli che esprimono una differenza rispetto a un mondo al contrario che in taluni casi è troppo comodo assecondare per gli adulti che hanno dato per vinto il ragazzo o la ragazza che è in loro. Allo stesso modo non ho trovato quasi nulla in cui sperare in quelli che vanno troppo d'accordo con un certo tipo di adulti che hanno smarrito il senso fondamentale tanto dell'esser giovani, quanto dell'essere adulti.

lunedì 12 ottobre 2015

Teresa




Teresa aveva il cognome de un libertador, di quelli che in Sudamerica si sono fatti sentire e che bastava il loro nome per sentire aprirsi la selva e venir fuori una cascata d'acqua fresca. Teresa era libera come l'aria, e viveva en la calle, perché la strada è il luogo in cui spesso finiscono le persone che non si conformano e si ribellano. Teresa non aveva più una casa, era una transeunte, una sin techo, eppure aveva un garbo che avrei definito urbano e un tono mite ma deciso, da principessa. I suoi capelli grigi erano lunghi, e si ripiegavano sul collo con un boccolo dolce. 
La conobbi in una città spagnola, in un taller artistico di una casa di carità che malgrado il nome antico accoglieva senza fissa dimora in modo moderno. E mi coinvolsi in un seminario di teatro e tecniche di espressione che per chi vive in strada erano una vera sfida, specie per la diffidenza al contatto, perché se qualcuno ti sfiora e vivi per strada la paura è che ti rubino tutto.
Mi spiegarono che Teresa non voleva mangiare e allora le facevo compagnia per pranzo. E dinanzi al pollo della mensa, servito così come si può servire un pollo in una mensa dove mangiano in tanti, lei mi diceva, indicandomi con le dita, come lo avrebbe cucinato lei, rebozado, se avesse avuto un tetto e un lavoro, perché sempre mi diceva che quel che conta nella vita sono due cose, un techo y un trabajo, quel che lei non aveva, eppure diceva che avrebbe potuto fare ancora qualcosa, e amava scrivere, raccontare, forse anche cucire, e anche cantare.
Teresa custodì in cuore la promessa che non le avevo fatto di portarla con me, forse in Italia, e questa immagine di io e lei da qualche parte nel mondo forse era balenata anche a me.
Ma un giorno tornai a trovare la mia amica alla casa di carità, dove lei poteva fermarsi solo per il giorno, o al massimo qualche notte. Teresa non c'era più. Qualcuno - non so se un giudice lo stato o cosa - aveva deciso che lei doveva andare in una residenza per anziani, insomma un ospizio. E vidi, anche se non lo vidi, questo trasporto forzato della mia povera amica libera come l'aria.
Con un amico caro e ribelle come lei riuscii a capire dov'era e andammo insieme in questo paesino, una urbanizzazione alquanto anonima, a un bel po' di chilometri da lì.
Teresa fu contenta di vedermi. Aveva le labbra secche, perché beveva poco. Le sue cose in delle borse di plastica, come chi non ha sciolto i suoi bagagli, perché non si sente ancora arrivato. E condivise con noi il suo desiderio di fuga.
Io non so dov'è Teresa, oggi, Teresa che aveva il cognome di un liberatore. So che abita con me un luogo del cuore, dove stanno tutti gli anziani e tutti coloro che senza una ragione vera e profonda sono costretti in luoghi anonimi, con qualcuno che decide per loro cosa è bene e cosa è male.
Ne ho conosciute tante persone così, e ho conosciuto anche persone che decidono per altri, e a volte anche a me è toccato questo peccato, ma come Teresa devo dire che amo, amo chi pecca di libertà.

giovedì 8 ottobre 2015

Un artista, una città: Exequiel Balut, Salta, Argentina. Prima parte.





Precocità, delicatezza, versatilità, libertà, contatto con la natura, rapporto di affinità non con il mondo ma con la terra sono le caratteristiche che ho colto nell’opera e forse nella personalità di Exequiel Balut. Una lunga conversazione serale in una Salta non troppo fredda per  esser d’inverno (mentre qui era estate, per il gioco inverso delle stagioni giù dall’Equatore) mi conferma alcune di queste intuizioni per bocca dello stesso pittore, che mi descrive un cammino di autodidatta che ha dello straordinario, dalle prime prove di disegno da ragazzino, alle ferias locali, ad un’arte sempre più richiesta dai più svariati committenti che devono aver capito che ovunque tocca, questo piccolo Mida, produce oro. Ma Exequiel è più di questo, più delle vetrine del Mac (Museo de Arte Contemporaneo)  su cui sono comparsi a un certo punto i suoi giganteschi fiori, e ancor più delle prove iperrealiste realizzate con degli strumenti che all’iperrealismo non sono familiari (tiza, gessetti colorati) con esiti tanto effimeri quanto portentosi. Sì, la bellezza effimera, la bellezza esposta al ciclo della natura, delle stagioni, della ferialità e delle feste, e perfino alla violenza di un mondo che sembra derubarla o sfruttarla senza potersene, in fondo, del tutto appropriare, è forse un aspetto non secondario di questo cammino. 
Il dialogo con Exequiel mi sommerge, come d’altronde volevo, nel suo contesto, nella generazione in dialogo di artisti versatilissimi che rappresentano quasi le distinte voci di un’unica sinfonia, quella di questa città, Salta la linda, o addirittura la hermosa, dove da più di un secolo la straordinaria sintesi tra città e natura, il crocevia che essa rappresenta nel nord-est argentino, con il suo europeismo e il suo colonialismo, le radici incaiche e preincaiche e le sovrapposizioni cristiane danno degli esiti sorprendenti, di una energia linfatica, come se il mastichio andino delle foglie di coca non avesse lasciato traccia solo sulla bocca dei tre bambini incas da poco ritrovati ibernati ed esposti ciclicamente al Museo di Archeologia della Montagna che è proprio di fronte al Mac: il confronto è obbligato, come obbligata è la liberazione, discendere ascendere per le radici e accendere un dibattito in maniera mai sprecata mai gratuita, mai banale, con discrezione inappariscente. E allora mi serve la visita al Mac per comprende tutto questo, vedere il palleggio e il rimando tra l’antico e il moderno, tra l’encestrale e il provocatorio, ma insieme la delicatezza, la dolcezza che è forse uno dei volti delle divinità delle montagne, e degli stessi indios: potenti e invisibili. Ripercorrere durante il mio volo transoceanico la storia degli artisti di Salta, mi fa comprendere su che cosa si strutturi una fuga che è solo apparente, che resta qui, nella circolarità di un dialogo, di un ambiente denso di risonanze come la cerchia di queste montagne. L’artista di Salta non fugge la sua terra ma la approfondisce, la apre, la assapora come nei culti della Pacha Mama si ferisce il suolo con un coltello, in una pozzanghera interna a un cortile, per aprire quella via di contatto, quella ferita che permette di nutrire l’antica madre perché essa rinnovi il suo dono di vita. Perché anche la terra ha bisogno di essere nutrita e fecondata, pena il suo inaridimento e la sua morte: il suo oc-cidente.

Balut, Inmortales cabalgando anguila gigante sobre el mar negro
Balut, Pachamama con peces


martedì 6 ottobre 2015

S-valigiato




Sì, mi hanno rubato una valigia. A Buenos Aires, terminal dei bus di Retiro, e non so bene come. 
Un tassista fermato al volo se l'era posta stranamente accanto, sul sedile davanti, e quando sono sceso con la testa piena delle sue chiacchiere, dopo pochi istanti mi sono sentito perso, con solo il mio zainetto in spalla. Lui se n'era andato, e invano ho aspettato che tornasse, come inutili sono stati gli appelli con l'altoparlante. Il camabus pronto già al suo luogo di partenza, e la scelta, così com'ero, di andare o restare. Ma restare come, dove... esto fue lo que dicen quedarse en pampa y la via.
La sensazione di depauperamento quasi evangelica di trovarti con le quattro cose che hai addosso, e di aver smarrito quasi tutto. I vestiti che erano, anche, ricordi di altri viaggi, spoliazione della memoria: una maglietta comprata in Germania con mia mamma in riva al Chemsee in un club di surfisti, omaggio a uno sport che forse mai praticherò, un maglione ben pesante dei tempi di Valencia, una camicia bianca decorata regalatami dal nonno. 
Sottrazione, operazione che ci restituisce a noi stessi, e ci fa dire: eppure sono qua, sono vivo, non è successo nulla. E ora bisogna mangiare, bisogna dormire. E il tempo improvvisamente si vive a porzioni: qui e ora. Sono qui, su questo bus che farà mille chilometri fino a Cordoba, e adesso tocca dormire, e quindi dormi. Fare in ciascun istante ciò che tocca, e pensare all'oggi, al domani, senza andare troppo al di là. Minima organizzazione. E, in fondo, una sensazione di leggerezza che va approfondita, e che porterò con me come una delle lezioni importanti di questo viaggio. Una cosa alla volta. Saper vivere con un orizzonte più breve ci fa rispondere al presente in modo più sensato e autentico, ci fa concentrare le energie, ci fa evitare lo spreco. Dal fatto economico a quello mentale: economia del pensiero. Un passo dopo l'altro, senza troppo pensare al cammino. 

venerdì 2 ottobre 2015

Una tarde a San Telmo

   


   Un domingo por la tarde, dalla Plaza de Mayo, a destra della Casa Rosada, imboccare la lunga strada che scende sale discende e risale fino alla Plaza del Dorrego, ma non sei più tu, sei un fiume nel fiume della gente, una piccolo sassolino leggero, trasportato dall'andamento sinuoso della via, tra le bancarelle e i negozi, oscillando da un lato e dall'altro come in un dolce ma deciso balanceo.
   E vai, sotto un cielo grisaceo, addentrandoti nell'inventiva dei semplici: le scatoline di  piel de naranja appiattita ed essiccata su forme di legno, e fatte fiorire dal pirografo, che ti fanno pensare a quante arance ci sono in Sicilia e forse a quanta pigrizia si deve al nostro benessere che non ci fa attivare come questa piccola semplice gente che vive di questo; i due ragazzi che passano in mezzo alla gente con un sifone e bicchierini del caffé Colombia, e ti rendi conto che anche offrire un caffé per strada può essere un mestiere; le innumerevoli distese di mates, e di bombillas, e signori in giacca e cravatta accovacciati a studiarle, per fare una buona scelta, accanto alle loro donne. E i cactus fatti con la lana, le sculture di forchette e in genere di posate ripiegate, le venditrici di empanadas con la loro spianatoia negli angoli e la gente in attesa di quelle de pollo o de carne, o di medialunas de jamon y queso, un pasto con pochi centesimi, quelli con cui noi tutti potremmo saziare un mondo.
   Non sai quando arriverai, quanto è lungo questo nastro di umanità autentica e semplice. San Telmo appare con i suoi colori ora più caldi ora più freddi, le botteghe luccicanti di lampadari degli antiquari, gli spartiti del tango, negozi in cui si diffonde musica argentina ma anche francese, personaggi appariscenti o discreti nella loro oscurità, luce e tenebre che si intarsiano. Il mercato coperto con il suo orologio, i venditori di cinture e di frutta... 
   E infine la piccola piazza dove al di là degli antichi caffé e dei gioiellieri, e gli alberghetti a poco prezzo, riconosci una Montamartre sudoccidentale, dove però tra le bancarelle che si smontano vedi apparire un gruppetto che srotola cartoni e nastri, e monta un faro appeso a un albero per un tango che non ha nulla a che vedere con le milonghe nostrane, tanta è la sua spontaneità, la sua elegante osmosi e insieme il suo riserbo rispetto alla cerchia degli astanti, per cui essi sono in se stessi e dinanzi, ma anche dentro la musica, privi di quel compiacimento un po' esotico che riduce l'arte a un uso esteriore privata e depredata della sua verità, del suo essere qui e ora nel suo spazio: San Telmo, Buenos Aires in una mite sera dell'inverno argentino, che si celebra in luglio.

Scatolina di buccia d'arancia,
Mercato di San Telmo, Buenos Aires.