giovedì 25 febbraio 2016

Coccodrilli di montagna



A un certo punto mia nonna decise che dovevamo andare. Assolutamente. Sissignore. Come diceva lei andava fatto.
Non so dove avesse ricevuto la notizia, forse dai signori della Meira, da Giacomo.Si trattava di una di quelle curiosità di cui si parla piano, senza pettegolezzo né morbosità, ma con discrezione e rispetto, perché la gente di montagna non è pettegola né morbosa come a volte è la gente di mare o di città. Lo scirocco qui porta umidità che appiccica e nuvole di salsedine o sabbia del deserto e tutto si rallenta come un debordare di lisciva davanti la porta di casa. In montagna l'aria è un'altra cosa. È tersa, è azzurra, e non c'è nulla in mezzo, se non qualche zaffata di profumo di violette, o di funghi, a volte fragole. E scendemmo rapidi per la strada della casa di Pollicino, la grande legnaia a forma di casa (perché non tutte le case hanno forma di casa qui, ma in montagna sì: tetto spiovente e rosone sopra il portone) piena di fieno caldo e di fascine. E mare di foglie, il cui crepitio era leggero sotto i piedi mentre ci si affondava piacevolmente come il bambinello nella culla.  
Il sentiero scendeva con le sue curve, montarozzi di diverse altezze, l'erbetta in mezzo, disegnato probabilmente dai cantonieri, e sui piccoli rialzi gli abeti piantati dal signor Enea, e poi da Giacomo, piccoli e magri ma che già sembravano alberi di natale. Noi certe cose le abbiamo viste prima nella vita: la frutta, prima che a tavola, sapevamo nascesse sugli alberi. E il primo latte fu quello delle mucche. 
E si scendeva, lieti, io e la nonna, la strada era di circa mezzoretta, non era una scorciatoia, lo sapevamo, ma un'allungatoia rispetto a quella asfaltata, avrebbe detto Enrico: ma era bella; era nel bosco. La nonna lungo la strada istruiva, cantava, poetava: non ricordo cosa, né se conoscessi la meta. Ma credo sia questo il senso della vita e dell'insegnamento.
Arrivammo giù, nella zona di quella che era stata la prima nostra casa nel paese, alle Betulle; ma dall'altro lato: un gruppo di case che non conoscevo. E fummo accolti con garbo, con la gentilezza della gente di montagna che si saluta sempre, anche in paese, che non si ignora mai. Si offre sempre qualcosa: una sedia, o un bicchiere di vino rosso anche alle donne. E si accetta, sempre.
Entrati nella casa sconosciuta a me più di quella di Pollicino, ecco il destinatario della nostra visita: i padroni di casa, di cui non ricordo nulla, avevano sulla mensola bassa del camino un coccodrillo imbalsamato.
E volete che mia nonna non mi portasse attraverso il bosco a vedere cotanta meraviglia?
In casa di sconosciuti, ma la visita ebbe il calore della normalità: i prodigi ci sono per esser mostrati.
Un coccodrillo, in montagna! 
“Donna venuta di cielo in terra a miracol mostrare..." 
E non è poco: a sessanta settanta ottanta novant'anni non perdere la meraviglia, la sete di conoscere, di ampliare gli orizzonti e di mostrarli agli altri, abbattendoli tutti. 
Un giro in elicottero sopra i ghiacciai; un contadino che viveva su in alto, a piedi nudi (era questo il prodigio!) arrivato dal Veneto; la nuova piantagione di lamponi; un santuario sconosciuto che lei decideva andasse visto solo perché c'era.
Qualcuno non lo sa, ma chi vive così vive per sempre, perché ha vissuto, sempre.


Kufstein (Austria)








giovedì 3 dicembre 2015

Un Maré di rilassatezza: stile ed eleganza sulla riviera dei Ciclopi




Per quanto la Sicilia possa essere una meteora caduta e incastonata nell’azzurro o una piccola Atlantide sorta dall’acqua, non è sempre facile per il viaggiatore di piacere trovare luoghi di ristoro in riva al mare che esprimano insieme le caratteristiche che il cultore del gusto richiede; un’interessante interpretazione del Genius Loci, buon cibo, vino vivo e impeccabilità di servizio.
Il Maré in questo rappresenta davvero un unicum, per  l’incantevole mix della sua proposta, e il concept che le sta dietro. Un locale fresco, sportivo, giovanile che sa diventare nel contempo elegante senza perdere il suo tocco sbarazzino, con l’estrema cura dei particolari e un’attenzione non comune all’avventore che non può non ritornare a godere di tanta mai affettata cordialità.
E questo non solo per l’accoglienza ferma e fresca come il bouquet di un Inzolia, per la disponibilità di Armando, Giovanni, Luca e di tutti gli altri operatori a cogliere e interpretare il desiderio dell’avventore e orientarlo sapientemente come un’ostrica appena aperta che chiede solo di essere ingollata o per l’ampio ventaglio della carte che senza alcuna forzatura percorre e ripercorre con fedeltà e creatività i pilastri della cucina siciliana; ma anche per la qualità degli ingredienti che ne stanno alla base: una squadra affiatata come un crudo di pesce, uno chef d’eccezione, un’apertura sia estiva che invernale che ci fa capire che il mare, il Maré appunto, c’è in Sicilia anche d’inverno e può essere fruito sempre nella sua bellezza e nelle sue sfumature, sia per la vista ma anche a tavola e nei suoi profumi. E poi un servizio intelligente, accogliente e discreto, in una location che desta l’invidia degli dèi, impareggiabile come diceva Quasimodo di questa terra e di comoda raggiungibilità; l’accuratezza nella scelta dei vini; la sontuosità misurata nel ritmo dei suoi dolci curati come endecasillabi; le serate trés chic ma sempre sportive e giovanili; il pubblico da Maré, insomma; la comodità dell’aparcamiento, il bar...
Luigi Savoca, Filippo Torrisi, Guido Vinciguerra, Gianpaolo Russo, Giovanni Belvisi, Marika Cannata sono gli artefici di questo gioiello di perfezione, insieme al primo Chef Rosario Midoro e al secondo Chef Andrea Alfonso. Rilevato il locale nel giugno 2013 ne hanno fatto un must dello struscio acese e catanese, ma anche una destinazione scelta per chi viene da più lontano e soggiorna nei vicini resort. Venerdì sera musica live, ristorante sempre aperto pranzo e cena, pizzeria da giovedi a domenica nei mesi invernali, aperitivi e bar tutti i giorni, tutto ma proprio tutto di produzione propria dalla colazione alla tavola calda, dalle granite agli ottimi dolci del pasticcere Piero, e il pesce crudo servito come deve averlo pensato Dio al momento della creazione, con abbinamenti tra frutti di mare e frutti della terra che vi faranno stupire e capire che prima del Maré in Sicilia, ancora, forse forse non avete mangiato mai.
Ottima la selezione dei vini, grande la preferenza accordata ai siciliani, ma anche ai nazionali ed esteri, tante bollicine, e proprio per quelli che resistono allo champagne le birre con chicche da intenditori, e una doviziosa attenzione alla temperatura e alla conservazione dei prodotti.



giovedì 19 novembre 2015

Mariapia Rizzo e Stefania Pecora, Vedettes oltre lo Stretto


Vedettes, con Mariapia Rizzo e Stefania Pecora, per la regia di Domenico Cucinotta, in scena in questo fine settimana al Teatro Primo di Villa San Giovanni, è un invito a guardare dietro i vetri le tensioni le parole e le girandole di pseudo-azioni derivanti dall'ansia di esser visti da una società che espone in vetrina perfino nel proprio cubicolo.
Non ci sono spettatori sociali per le due donne impersonate da questo affiatato e sperimentato duo, se non quelli sempre pensati e supposti, per i quali ci si veste tra-veste e sotto-veste, ma anche sopravveste. La continua masquerade, sottolineata dalla teoria degli scontrini sempre da ricontare, è quella assegnata a un modello femminile che cerca il suo riscatto solo e sempre nella parola, nel rac-conto di sé, quale unica supposta possibilità di senso, ma che si presta, ahinoi, ai limiti dello stesso meccanismo di esposizione/giudizio.
Il rapporto interno/esterno, quello tra la coscienza e le cose, potrebbe generare nausea sartriana, invece intriga anche per la brevitas, e il gioco della duplice monologazione coinvolge il pubblico in ogni momento, nel cogliere il canto e controcanto di due scampoli di vita che, viaggiando paralleli o chiasticamente attraverso la sbarra degli indumenti, si perdono si ignorano e si trovano fino a sfiorare una possibilità di comunicazione, che sarebbe la vera liberazione dalle specularità dell'esistenza. 
Terza protagonista e forse prima, non a caso, una porta-specchio, circondata da luci come quella di un circo o come lo specchio di un camerino, punto di incontro e scontro tra sé e sé, nell'illusione del confronto con un mondo che non esiste se non nella dimensione monadica del proprio schermo, mera supposizione di un certo solipsismo attoriale.
Da vedere, soprattutto per la vibrante interpretazione muscolare della Rizzo, la cui capacità autoironica percorre come un sismografo la pelle – emblematica la posizione di un vecchio telefono tra le cosce – e per la solida capacità della deuteragonista di imprimere, su gesti e parole e perfino sui propri capelli, gli effimeri significati dell'insignificanza.

                                                                                                      Gabriele Blundo Canto




venerdì 13 novembre 2015

La "Filumena Marturano" di Maria Saccà al Teatro Annibale. La resistenza dell'arte nella città martoriata



Mentre Messina pare sempre di più affondare come una barca sbilenca, piena d’acqua dinanzi, di sopra e di sotto, ma senza acqua nelle case, tra dissesto idrogeologico scandali politici e immondizia nelle strade, in analogia con la vecchia Partenope, quasi venisse da un altro mondo, dal mondo della “Madonna delle rose” che per parlare si serve delle nostre voci, un segno di speranza viene dal mondo dell’arte, dalla Filumena Marturano egregiamente impersonata da Maria Saccà, in queste sere al teatro Annibale Maria di Francia, il santo del degrado e della rinascita.
Non è facile descrivere la luce che ha brillato negli occhi degli spettatori in occasione della prima offerta dal Gruppo Teatrale "Angelo Maio" in un teatro in sold out, e il silenzio che si tagliava col coltello mentre sulla scena, con grande fedeltà, si svolgeva la vicenda tragica e lieta – la vita – quale è rappresentata in una delle opere più autobiografiche e toccanti di Eduardo De Filippo, dove il dramma della sopravvivenza dei legami oppone ancora una volta, come in una moderna Antigone, la legge della carta e quella della cura.
La Saccà è stata capace, dinanzi ai grandi modelli della tradizione – da Titina De Filippo alla Loren, dalla Melato alla Sastri, nomi che inibirebbero chiunque – di offrire una interpretazione propria, personale, originale, ricchissima di risonanze e ineccepibile nella resa formale.
Sulla scena non un dialogo, ma una lotta tra belve senza remissione di colpi e di peccato, un contrappunto in cui l’eterno amaro gioco del potere maschile/femminile viene riequilibrato con arte da domatrice. La scena si apre con la lettura della prima didascalia, quasi a definire un mondo di statue e caratteri che, se mantiene una certa fissità nei ruoli di spalla, si anima sempre di più nei due personaggi principali, in un climax che richiama certi duelli drammatici tra Lavia/Ferzetti e Proclemer. Insomma, tutto scompare dinanzi a questo grande rituale in cui Filumena, donna che non si può permettere nemmeno le lacrime, riconduce la sua belva ribelle all’obbedienza alla superiore legge di cura e tutela: “i figghi so’ figghi”.
 Non ci sono cedimenti nella Filumena di Maria Saccà: la mimica del volto, la postura del collo, l’espressione del dominio divengono orgoglio e fierezza, estrema manifestazione delle unghie che escono fuori nel dolore, della necessità di sopravvivere fino al compimento del proprio progetto di abnegazione.
La rilettura messinese nella sapiente riscrittura del co-protagonista Pietro Barbaro nulla toglie alla fedeltà all’originale. Ottime le scelte registiche di Gianni De Francesco nella grande, quasi geometrica centralità data alla protagonista, in particolare nei due celebri monologhi, mentre si riducono al minimo gli aspetti macchiettistici, il cui rischio è spesso presente nella resa di una commedia in vernacolo.

Un pubblico emozionato ha confermato come il rinnovamento della nostra città martoriata non sia da attendersi dai grandi centri istituzionali, quanto dalla resistenza creativa dei pochi ostinati e liberi nell’amore per l’arte.  



Pietro Barbaro e Maria Saccà in Filumena Marturano.

venerdì 30 ottobre 2015

Pietre lisce



Esistono pietre grosse che modificano il corso di un fiume. Massi grandi come case, su cui puoi sedere con un bastone in mano e vedere come là sotto l’acqua è costretta a fare un giro, come se tu fossi su una piccola isola.
Esistono pietre che si ricoprono di limo e di alghe, e che via via, pian piano diventano tutte verdi e lisce, pericolose per chi guada il fiume, perché si rischia di scivolare. Su di esse il fiume passa rapido, non si sa se hanno deciso di assecondarne il corso o se si sono arrese per troppa debolezza.
Da bambini sui fiumi giocavamo a spostare le piccole pietre, costruire piccole dighe, chiudere minuscoli laghetti, creare cascate.
Non sempre il corso va assecondato. In taluni casi essere resistenza, diga, filtro può essere utile a trattenere masse che potrebbero diventare tragedia.
In altri casi se ti poni come ostacolo a un flusso, rischi di soccombere alla forza del flusso inarrestabile.
In altri è doveroso.
Facile la politica che asseconda il flusso, che più che ascoltare le istanze dell’etica e della storia, risponde agli istinti più bassi e immediati: di violenza e vendetta, e non di giustizia, di vita facile più che di responsabilità.
Facile il giornalismo che va incontro al senso comune, alla sete morbosa, alla curiosità, al linciaggio.
Il senso critico è ruvido, ma è filtro, crivello, setaccio che aiuta a discernere con libertà e ragionevolezza.
Le piccole onde del fiume battono su di me. Una leggera schiuma tra i capelli. La frescura dell’acqua nella gola.
Non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume. Nemmeno una volta. Tutto scorre.
Ma il rapporto tra le pietre e il fiume è un concerto eterno, un’opera di filtraggio secolare.
Trasparenze, specchi, improvvise aperture e balze. Un fluire che è discontinuo come la vita, filamenti di una rete che la disegna e la tesse. No, non sarò mai pietra liscia.







martedì 27 ottobre 2015

Tutto il potere alle nonne



   La saggezza va avanti, non va indietro. Le persone più lungimiranti sono quelle che hanno salito la china per cammini anche impervi. Raggiunto quasi il punto più alto, si guardano intorno, il respiro ancora affannoso per il fiatone, definendo lo spazio con il loro bastone. Loro sanno perfettamente cosa hanno attraversato per arrivare lassù. Ora lo sguardo si estende su una immensa distesa di mondo.
   Per questo ritengo che  tutto il potere vada dato alle nonne. Non ai genitori troppo impegnati dal lavoro per potersi dedicare al futuro dei loro figli, ma proprio a loro, loro che sono state mamme due volte, che tanta cura hanno avuto per la vita da potersi permettere una doppia ironia adesso, nei confronti dei loro figli e dei figli dei loro figli. E per ironia non si intende una presa in giro, ma uno sguardo che aiuta al distacco che è utile al pensiero in mezzo alla confusione e che sa dirti che quella cosa che ti sta preoccupando è solo una piccolissima briciola nell’armonia dell’universo.
   Le nonne anticipano papi e sovrani nelle loro riflessioni e aperture. Mi vien da sorridere quando leggo – ora – 2015- aperture per altro mal scritte su temi di disabilità ed emarginazione che mia nonna a partire dalla sua esperienza aveva richiesto molto tempo prima quando si scontrava – sì, sì scontrava – con politici e prelati nel richiedere l’abbattimento di barriere architettoniche e le veniva risposto che le vere barriere sono quelle mentali e psicologiche. E lo sapeva bene! Eppure lo Stato nella sua legislazione al riguardo – ancora male applicata, malissimo – ha anticipato di gran lunga una Chiesa che ancora fino a poco tempo fa discuteva – e forse talvolta ancora discute – sui sacramenti ai disabili! – no, non si parla qui di divorziati. Insomma il siamo tutti fratelli e il prendete e mangiatene tutti hanno avuto tanti distinguo, tante eccezioni, che hanno provocato tante ferite nascoste.
   La consapevolezza delle nonne è sempre stata in anticipo nell’evidenziare la necessità di affrontare i temi del celibato, del matrimonio dei preti, nella convinzione  che una sana affettività è la premessa per dialogare di affettività con chiunque e per vivere rapporti umani equilibrati. E che la bocca parla dalla pienezza, non dal vuoto, del cuore.
   La consapevolezza delle nonne anticipa stati e chiese nel riconoscere l’amore vero.  A volte seguendo con fatica il cammino dei loro figli, ma a volte anche superandolo laddove questi restano spaventati dalle chiusure e dalle miopie del mondo, le nonne darebbero la vita ogni volta che un loro figlio o nipote si sente violato, discriminato nella sua dignità, nel suo diritto a una libera realizzazione di sé in ogni campo. Perché questa è la libertà che non può essere solo appannaggio di alcuni.
   Le nonne hanno ben capito che Dio va oltre i sacramenti, e che il diritto va oltre le leggi, e che la prima cosa sacra sono le persone con la loro libertà e la loro coscienza e le loro venture. Dove sono queste persone che oggi hanno trovato la loro strada al primo colpo, nell’amore, nel lavoro, in ogni campo, laddove regna una precarietà che è forse il segno dei tempi, il segno di una fragilità che attanaglia l’uomo proprio quando si sente più forte nelle sue conquiste, nei suoi traguardi nella sua potenza economica e politica raggiunta a prezzo della povertà e dello sfruttamento di tanti altri che oggi chiamiamo migranti, uomini ischeletriti dai predoni d’Occidente?
   Le nonne hanno sguardo ampio sulla politica. Le nonne smascherano. Le nonne ne hanno viste tante. Non reggono l’ipocrisia, mentre stirano una camicia e guardano la televisione sanno riconoscere l’impostura ricorrente. Sanno individuare la parola vera. Sanno indicare le mine dell’incoerenza e del trasformismo che scandalosamente non fanno più scandalo. 
   Le nonne non si fidano. E per questo bisogna stare attenti.
   Vorrei nonne cardinali, nonne presidenti della repubblica. Nonne sindaco, nonne assessori, nonne sacerdoti. Presbiteri erano coloro a cui veniva affidato il governo di una comunità e il servizio della celebrazione di ciò che è più sacro (nonna a Pasqua, nonna a Natale!) nelle prime comunità cristiane. Niente di scandaloso. E alle nonne, dico oggi, non ai nonni, perché si sa in fondo di chi è la tempra.
   Le nonne hanno impastato tanta pasta e girato tanto sugo che la gravitazione universale per loro è una bazzecola. Hanno abbassato e alzato fiamme, misurato tanta febbre, che le leggi della termodinamica fanno loro un baffo. Hanno messo tante lavatrici che la forza centrifuga e quella centripeta non si sprigionano senza il loro assenso. L’ebollizione dell’acqua necessità del loro placet. Hanno visto esplodere ire e attentati, crollare muri e riergersi barriere su cose che sembravano superate e assodate, negando conquiste dell’umanità che hanno richiesto oltre che sangue un cammino secolare. Le poesie scritte dalle nonne sono una invocazione perenne di bellezza e di pace.     Cosa teme una nonna se non che non si riconosca una via di realizzazione per i propri figli, per i propri nipoti?

Lasciate passare una nonna, ed aprirete il futuro del mondo. 



Tilcara, Quebrada de Huamhuaca, Argentina. 

venerdì 23 ottobre 2015

Le felicità




   Le felicità sono tante. Non a caso per dire auguri il mondo latino usa il termine Felicidades o Felicitats, e in alcune situazioni anche in Italia si dice felicitazioni
Qualcuno crede che la felicità non esista proprio perché pensa che di felicità ce ne sia una sola: la Felicità. Io penso invece che esistano tante felicità, diverse secondo i momenti della vita e che ciascuno possa avere la sua, o più di una, contemporaneamente o a seguire, di queste forme di felicità.

   Esiste la felicità come spensieratezza e gioco, nei bambini o nell’adolescenza, uno stato che si può attingere anche in momenti diversi della vita, se si è capaci di lasciarsi andare.

   Esiste la felicità come raggiungimento di mete e traguardi, molto legata alla stima ed all’autostima, tipica forse dell’adolescenza, o dello sportivo, ma che si sperimenta in ogni fase della vita che implica un passaggio: la laurea, il primo impiego, l’intreccio di un legame affettivo, la nascita di un figlio, un libro pubblicato, l’acquisto della prima casa.

   Esiste la felicità fisica, fatta di grande benessere del corpo, in cui i sensi ci mettono in comunicazione con la natura facendoci sentire tutt’uno con essa. Una forma di questa è la felicità amorosa, in cui spirito e corpo godono all’unisono insieme alla persona che si ama.

   Esiste la felicità del gustare la bontà e la bellezza, e soprattutto l’arte. La creatività artistica ne è certamente una delle forme più alte.

   Esiste la felicità del sentirci in sintonia con qualcuno o con qualcosa, con una persona, una forma vivente, un astro, un gruppo culturale o politico, una patria cui sentiamo di appartenere o la terra promessa dell’umanità realizzata o in via di realizzazione.

   Esiste la felicità nei sogni che può permetterci di vivere una vita per ogni sogno.

   Esiste la felicità come soddisfazione lavorativa, o affettiva. Queste sono proprie dell’età adulta, e non è detto che si diano insieme. A volte si è più soddisfatti di un aspetto, a volte dell’altro, e non è detto che entrambi siano sempre indispensabili.

   Esiste la felicità come memoria, come ricordo dei bei momenti trascorsi o dell’insegnamento tratto anche dal superamento di momenti dolorosi. Questa forse è la felicità dell’anziano, simile alla felicità del contadino che torna con il suo raccolto.

   Esiste la felicità della speranza, che è quella che si può avere anche nei momenti di grande dolore, forse anche in quello più estremo. Una felicità che ci proietta oltre, e che ha qualcosa a che vedere con una forma di fede e anche con l’immaginazione.

   Per questo io dico che di felicità non ce n’è una sola, ma una e tante per ogni uomo, e credo che non ci sia essere sulla terra che non ne abbia provato neppure una di queste, e nessuno che sia stato felice che non possa rivivere quello stato di grazia, anche solo chiudendo gli occhi e ripensando. 



Salisburgo. Sul fiume Salzach.