Mentre
Messina pare sempre di più affondare come una barca sbilenca, piena d’acqua dinanzi, di
sopra e di sotto, ma senza acqua nelle case, tra dissesto idrogeologico scandali
politici e immondizia nelle strade, in analogia con la vecchia Partenope, quasi
venisse da un altro mondo, dal mondo della “Madonna delle rose” che per parlare
si serve delle nostre voci, un segno di speranza viene dal mondo dell’arte,
dalla Filumena Marturano egregiamente
impersonata da Maria Saccà, in queste
sere al teatro Annibale Maria di Francia, il santo del degrado e della
rinascita.
Non
è facile descrivere la luce che ha brillato negli occhi degli
spettatori in occasione della prima offerta dal Gruppo Teatrale "Angelo Maio" in un teatro in sold out, e il
silenzio che si tagliava col coltello mentre sulla scena, con grande fedeltà,
si svolgeva la vicenda tragica e lieta – la vita – quale è rappresentata in una
delle opere più autobiografiche e toccanti di Eduardo De Filippo, dove il
dramma della sopravvivenza dei legami oppone ancora una volta, come in una
moderna Antigone, la legge della carta e quella della cura.
La
Saccà è stata capace, dinanzi ai grandi modelli della tradizione – da Titina De Filippo alla Loren, dalla Melato alla Sastri, nomi che inibirebbero chiunque – di offrire
una interpretazione propria, personale, originale, ricchissima di risonanze e
ineccepibile nella resa formale.
Sulla
scena non un dialogo, ma una lotta tra belve senza remissione di colpi e di peccato, un
contrappunto in cui l’eterno amaro gioco del potere maschile/femminile viene riequilibrato con arte da domatrice. La scena si apre con la lettura della
prima didascalia, quasi a definire un mondo di statue e caratteri che, se mantiene
una certa fissità nei ruoli di spalla, si anima sempre di più nei due personaggi
principali, in un climax che richiama certi duelli drammatici tra Lavia/Ferzetti e Proclemer. Insomma, tutto
scompare dinanzi a questo grande rituale in cui Filumena, donna che non si può
permettere nemmeno le lacrime, riconduce la sua belva ribelle all’obbedienza
alla superiore legge di cura e tutela: “i figghi so’ figghi”.
Non ci sono cedimenti nella Filumena di Maria
Saccà: la mimica del volto, la postura del collo, l’espressione del dominio divengono
orgoglio e fierezza, estrema manifestazione delle unghie che escono fuori nel dolore,
della necessità di sopravvivere fino al compimento del proprio progetto di abnegazione.
La
rilettura messinese nella sapiente riscrittura del co-protagonista Pietro Barbaro nulla toglie
alla fedeltà all’originale. Ottime le scelte registiche di Gianni De Francesco nella
grande, quasi geometrica centralità data alla protagonista, in particolare nei due
celebri monologhi, mentre si riducono al minimo gli aspetti macchiettistici, il cui rischio è spesso presente nella resa di una commedia in vernacolo.
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