Vedettes, con Mariapia Rizzo e Stefania Pecora, per la regia di Domenico Cucinotta, in scena in questo fine settimana al Teatro Primo di Villa San Giovanni, è un invito a guardare dietro i vetri le tensioni le parole e le girandole di pseudo-azioni derivanti dall'ansia di esser visti da una società che espone in vetrina perfino nel proprio cubicolo.
Non ci sono spettatori sociali per le due donne impersonate da questo affiatato e sperimentato duo, se non quelli sempre pensati e supposti, per i quali ci si veste tra-veste e sotto-veste, ma anche sopravveste. La continua masquerade, sottolineata dalla teoria degli scontrini sempre da ricontare, è quella assegnata a un modello femminile che cerca il suo riscatto solo e sempre nella parola, nel rac-conto di sé, quale unica supposta possibilità di senso, ma che si presta, ahinoi, ai limiti dello stesso meccanismo di esposizione/giudizio.
Il rapporto interno/esterno, quello tra la coscienza e le cose, potrebbe generare nausea sartriana, invece intriga anche per la brevitas, e il gioco della duplice monologazione coinvolge il pubblico in ogni momento, nel cogliere il canto e controcanto di due scampoli di vita che, viaggiando paralleli o chiasticamente attraverso la sbarra degli indumenti, si perdono si ignorano e si trovano fino a sfiorare una possibilità di comunicazione, che sarebbe la vera liberazione dalle specularità dell'esistenza.
Terza protagonista e forse prima, non a caso, una porta-specchio, circondata da luci come quella di un circo o come lo specchio di un camerino, punto di incontro e scontro tra sé e sé, nell'illusione del confronto con un mondo che non esiste se non nella dimensione monadica del proprio schermo, mera supposizione di un certo solipsismo attoriale.
Da vedere, soprattutto per la vibrante interpretazione muscolare della Rizzo, la cui capacità autoironica percorre come un sismografo la pelle – emblematica la posizione di un vecchio telefono tra le cosce – e per la solida capacità della deuteragonista di imprimere, su gesti e parole e perfino sui propri capelli, gli effimeri significati dell'insignificanza.