giovedì 19 novembre 2015

Mariapia Rizzo e Stefania Pecora, Vedettes oltre lo Stretto


Vedettes, con Mariapia Rizzo e Stefania Pecora, per la regia di Domenico Cucinotta, in scena in questo fine settimana al Teatro Primo di Villa San Giovanni, è un invito a guardare dietro i vetri le tensioni le parole e le girandole di pseudo-azioni derivanti dall'ansia di esser visti da una società che espone in vetrina perfino nel proprio cubicolo.
Non ci sono spettatori sociali per le due donne impersonate da questo affiatato e sperimentato duo, se non quelli sempre pensati e supposti, per i quali ci si veste tra-veste e sotto-veste, ma anche sopravveste. La continua masquerade, sottolineata dalla teoria degli scontrini sempre da ricontare, è quella assegnata a un modello femminile che cerca il suo riscatto solo e sempre nella parola, nel rac-conto di sé, quale unica supposta possibilità di senso, ma che si presta, ahinoi, ai limiti dello stesso meccanismo di esposizione/giudizio.
Il rapporto interno/esterno, quello tra la coscienza e le cose, potrebbe generare nausea sartriana, invece intriga anche per la brevitas, e il gioco della duplice monologazione coinvolge il pubblico in ogni momento, nel cogliere il canto e controcanto di due scampoli di vita che, viaggiando paralleli o chiasticamente attraverso la sbarra degli indumenti, si perdono si ignorano e si trovano fino a sfiorare una possibilità di comunicazione, che sarebbe la vera liberazione dalle specularità dell'esistenza. 
Terza protagonista e forse prima, non a caso, una porta-specchio, circondata da luci come quella di un circo o come lo specchio di un camerino, punto di incontro e scontro tra sé e sé, nell'illusione del confronto con un mondo che non esiste se non nella dimensione monadica del proprio schermo, mera supposizione di un certo solipsismo attoriale.
Da vedere, soprattutto per la vibrante interpretazione muscolare della Rizzo, la cui capacità autoironica percorre come un sismografo la pelle – emblematica la posizione di un vecchio telefono tra le cosce – e per la solida capacità della deuteragonista di imprimere, su gesti e parole e perfino sui propri capelli, gli effimeri significati dell'insignificanza.

                                                                                                      Gabriele Blundo Canto




venerdì 13 novembre 2015

La "Filumena Marturano" di Maria Saccà al Teatro Annibale. La resistenza dell'arte nella città martoriata



Mentre Messina pare sempre di più affondare come una barca sbilenca, piena d’acqua dinanzi, di sopra e di sotto, ma senza acqua nelle case, tra dissesto idrogeologico scandali politici e immondizia nelle strade, in analogia con la vecchia Partenope, quasi venisse da un altro mondo, dal mondo della “Madonna delle rose” che per parlare si serve delle nostre voci, un segno di speranza viene dal mondo dell’arte, dalla Filumena Marturano egregiamente impersonata da Maria Saccà, in queste sere al teatro Annibale Maria di Francia, il santo del degrado e della rinascita.
Non è facile descrivere la luce che ha brillato negli occhi degli spettatori in occasione della prima offerta dal Gruppo Teatrale "Angelo Maio" in un teatro in sold out, e il silenzio che si tagliava col coltello mentre sulla scena, con grande fedeltà, si svolgeva la vicenda tragica e lieta – la vita – quale è rappresentata in una delle opere più autobiografiche e toccanti di Eduardo De Filippo, dove il dramma della sopravvivenza dei legami oppone ancora una volta, come in una moderna Antigone, la legge della carta e quella della cura.
La Saccà è stata capace, dinanzi ai grandi modelli della tradizione – da Titina De Filippo alla Loren, dalla Melato alla Sastri, nomi che inibirebbero chiunque – di offrire una interpretazione propria, personale, originale, ricchissima di risonanze e ineccepibile nella resa formale.
Sulla scena non un dialogo, ma una lotta tra belve senza remissione di colpi e di peccato, un contrappunto in cui l’eterno amaro gioco del potere maschile/femminile viene riequilibrato con arte da domatrice. La scena si apre con la lettura della prima didascalia, quasi a definire un mondo di statue e caratteri che, se mantiene una certa fissità nei ruoli di spalla, si anima sempre di più nei due personaggi principali, in un climax che richiama certi duelli drammatici tra Lavia/Ferzetti e Proclemer. Insomma, tutto scompare dinanzi a questo grande rituale in cui Filumena, donna che non si può permettere nemmeno le lacrime, riconduce la sua belva ribelle all’obbedienza alla superiore legge di cura e tutela: “i figghi so’ figghi”.
 Non ci sono cedimenti nella Filumena di Maria Saccà: la mimica del volto, la postura del collo, l’espressione del dominio divengono orgoglio e fierezza, estrema manifestazione delle unghie che escono fuori nel dolore, della necessità di sopravvivere fino al compimento del proprio progetto di abnegazione.
La rilettura messinese nella sapiente riscrittura del co-protagonista Pietro Barbaro nulla toglie alla fedeltà all’originale. Ottime le scelte registiche di Gianni De Francesco nella grande, quasi geometrica centralità data alla protagonista, in particolare nei due celebri monologhi, mentre si riducono al minimo gli aspetti macchiettistici, il cui rischio è spesso presente nella resa di una commedia in vernacolo.

Un pubblico emozionato ha confermato come il rinnovamento della nostra città martoriata non sia da attendersi dai grandi centri istituzionali, quanto dalla resistenza creativa dei pochi ostinati e liberi nell’amore per l’arte.  



Pietro Barbaro e Maria Saccà in Filumena Marturano.